RACCONTARNE UNA PER RACCONTARLE TUTTE
La Corona de Logu, in occasione della Giornata internazionale contro la a violenza di genere, ribadisce la sua idea pacifica e inclusiva di comunità, attenta alle diversità. Nel ricordo delle vittime della discriminazione e della prevaricazione sessista, dà voce in questa giornata ad Annamaria Camboni, alla sua storia, che è il racconto universale della brutalità della violenza contro le donne:
«Sono nata il 18 marzo 1881. Il 13 settembre del 1903 mi sono sposata con Giovanni Dore. Era di domenica. Avevo 21 anni quando lo conobbi. Era arrivato da poco a Olmedo, rientrato da Marsiglia, dove era emigrato per qualche anno. Aveva deciso di aprire una bottega in paese, faceva il calzolaio. Abbiamo avuto sei figli: tre femmine e tre maschi. Il più piccolo, Giuseppe aveva dieci anni quella domenica, il 15 dicembre 1929.
Faceva freddo, quel giorno il sole non riusciva a scaldare. Da un po’ di tempo avevo aperto un bar, unu butighinu come si dice a Olmedo. Avevo anche messo un letto dietro al bancone perché mi ero allontanata da Giovanni. La sua gelosia era soffocante, avevo sopportato troppo! Quella fredda domenica di dicembre ero andata alla prima messa e, ritornata al bar, avevo subito iniziato a lavorare.
Era appena passata l’ora di pranzo quando arrivarono Giommaria Piras “Cozarussa” e suo fratello Peppino “Sartòriu”. I due mi hanno raccontato di aver mangiato dei polpi “in azada”, preparati dalla madre. Erano piccanti – mi dissero – e per questo avevano bisogno di essere bagnati con un buon bicchiere di vino.
Si sedettero intorno a un tavolo e chiesero da bere. Mentre i due ragazzi mi raccontavano di quanto era buona la cucina della madre entrò al bar Giovanni Dore, mio marito. Sedutosi al tavolo di fronte ai due giovani mi chiese un bicchiere di vino. Gli portai il bicchiere e stavo versando il suo vino quando sentii qualcosa di freddo entrare nel mio cuore, un dolore fortissimo mi tolse il respiro, lasciai cadere la caraffa … e si fece buio. Sentivo solamente la voce di Giommaria che diceva: l’ha uccisa, l’ha uccisa! Poi avvertii le sue braccia che mi sollevavano per adagiarmi sul letto dove esalai l’ultimo respiro.
Il mio nome era Annamaria Camboni.»
*Liberamente tratto da fonti dell’Archivio di Stato di Sassari, sentenze 1930, Corte d’Assise.