di Matteo Pische
Quello andato in scena lo scorso 16 ottobre è stato l’ennesimo capitolo della Saga del Clasico del calcio iberico. Ancora una volta Barcellona contro Real Madrid. Per la 427esima volta nella storia, ancora contro, alla ricerca di una vittoria che va oltre i punti assegnati e la posizione in classifica nella Liga. Per la cronaca il Real Madrid si è imposto 3 a 1 con reti di Benzema, Valverde e Rodrygo, intramezzati dall’illusoria marcatura di Ferran Torres per il Barcellona.
Ma il Clasico va ben oltre il rettangolo di gioco: è la sfida tra il catalanismo del Barça e il centralismo di Madrid. Due modi diversi di intendere la vita, più che il calcio.
La repressione storica del simbolo sportivo di una nazione
Il Barcellona è il simbolo della Catalunya, il suo esercito, l’avamposto di libertà prima durante il tremendo periodo della dittatura di Miguel Primo de Rivera negli anni Venti e poi di Francisco Franco.
Perché mentre qualsiasi diversità veniva prima osteggiata e poi abbattuta, il tifo culé significava poter andare allo stadio e parlare il proibito Catalano e in quella Lingua o in Castigliano – poco importa, è il fine che conta – rivolgere insulti al regime senza subirne la repressione.
Repressione che comunque arriva, sia chiaro, e l’obiettivo è proprio il club della capitale catalana. Joan Gamper, il suo fondatore, ironia della sorte svizzero (ma evidentemente non neutrale come la nazionalità farebbe supporre) viene messo nella lista dei simpatizzanti del nazionalismo catalano. Ma non basta: durante il triste periodo del regime franchista viene ucciso l’allora Presidente del Club, Josep Sunyol, assassinato dai falangisti. Viene commissariato il club, del quale viene spagnolizzato il nome, perché tutto ciò che non è autenticamente spagnolo rappresenta il male assoluto.
E allora forse il Barcellona non è solo una squadra di calcio, anche se al tempo nessuno aveva ancora pensato a dirlo. Forse le sue vittorie non sono un bene per il regime.
Real, Athletic, Franco e il Barça
Accade così che in una delle tante battaglie il Real umìli gli odiati rivali: 11 a 1. Una disfatta imposta dal regime franchista, pare. Perché nell’intervallo tra primo e secondo tempo qualcuno entra negli spogliatoi blaugrana e riporta a più miti consigli i giocatori catalani che vengono cordialmente invitati a non impegnarsi troppo, che non si sa mai. Il Real del resto è la squadra del Caudillo anche se parrebbe che inizialmente lui tifi Atlético Madrid, in un periodo di particolare grazia. Atlético che per uno strano gioco del destino viene fondato da studenti baschi che decidono di fondare una succursale dell’Athletic Club de Bilbao (Athletic, si badi bene, non Atlético come pure impone negli anni del regime indovinate voi chi). I baschi, maledetti baschi, anche loro con la pretesa di veder riconosciuta la loro Lingua, l’euskera, la loro bandiera e poi chissà cos’altro ancora, magari l’indipendenza dallo Stato spagnolo. Non bastasse la Catalogna, il suo dannato Barcellona e le manie dei loro abitanti e tifosi.
Més que un club per il Pelè bianco
Intanto gli anni passano, tremendamente, e il Barcellona diventa més que un club, più di un club. Lo era già, veramente, ma lo diviene ufficialmente nel 1968: il nuovo Presidente Narcís de Carreras i Guiteras si insedia con un discorso ufficiale in cui lo dice apertamente: el Barça es més que un club. Nessuno lo immagina ancora ma quello sarebbe poi diventato il motto ufficiale. Nessuno lo immagina ancora ma quel motto poi campeggerà sulle tribune del Camp Nou, la cattedrale blaugrana. Lo era, in quegli anni, perché rappresentava un’idea diversa di società, un’idea di Catalogna che di certo non trovava spazio nelle alte sfere del Governo spagnolo.
Se ne accorgono tutti che quella maglia rappresenta di più, lo capiscono tutti che quei colori sono legati inscindibilmente ai pali giallorossi della bandiera catalana. Lo capisce subito anche Johan Cruyff, il Pelè bianco. Arriva nella città portuale nel 1973 e ha l’ardire di chiamare il figlio Jordi che guardacaso è il nome del santo patrono della Catalogna. Ma non si può, perché il regime non lo permette. Ma poi invece lo consente perché a Johan Cruyff, oltre che dargli del lei (come sa bene Jorge Valdano), non si può dire di no.
Sport e diritto a decidere
Superato questo tragico capitolo della storia spagnola, il club non perde i suoi connotati. Accade così che decide di aderire all’Accordo nazionale sul diritto a decidere, piattaforma che come il nome stesso suggerisce è a favore della libertà di scelta catalana: indizione di un referendum e in caso di vittoria, indipendenza (le cronache degli anni successivi dimostreranno che proprio così non è, che lo Stato centrale del diritto a decidere non ne vuole neanche sentir parlare). Così il club appoggia le prime consultazioni referendarie, di carattere consultivo. Con un esito scontato, più dell’odio per gli arcirivali se nasci nei pressi delle ramblas (e se non hai la sfortuna di essere tifoso dell’Espanyol, ça va sans dire).
Lo stadio parla, i tifosi e Guardiola
Meno scontato per un osservatore esterno è quello che accade al minuto 17:14 delle partite casalinghe del Barça. Se ci andate vi renderete conto che lì, in quel preciso istante, in uno stadio solitamente ricolmo di esteladas (la bandiera indipendentista catalana, con la stella bianca su campo blu a sinistra) scatta l’urlo independència! La scelta di tempo non è casuale: il 1714 è l’anno in cui, al termine della battaglia contro i Borboni, la Catalogna perde la sua indipendenza (11 settembre per la precisione, data della festa nazionale catalana – la Diada).
Indipendenza che la Catalogna ha intenzione di riconquistare. Ci ha persino provato, il Governo Catalano, a indire un referendum legale per il 1 ottobre 2017. Ma a Madrid non l’hanno presa tanto bene e sono scattate perquisizioni, arresti, persino pestaggi durante la consultazione che è stato un manifesto del diritto a decidere, con persone di tute le età e classi sociali che si sono recate a esprimere la propria preferenza. E si sono trovate letteralmente a doverle difendere quelle urne, magari pensando a Messi quando accarezza il pallone. Un gesto di amore incondizionato per il calcio il suo, per la Catalogna il loro.
E allora dopo gli arresti, le fughe, gli esìli, i processi, forse vedrete al Camp Nou anche cartelli recanti scritte che inneggiano alla libertà per i prigionieri politici catalani e qualche fiocco giallo, in solidarietà agli incarcerati che persino Guardiola, tecnico catalano, ha indossato per anni nella perfida Albione. E chi se ne frega delle sanzioni della Federazione.
Per cui alla fine che importa se ha vinto il Real, ma non ditelo troppo in giro! Visca Catalunya! Visca el Barça!