La tensione mediatica sul Carnevale di Ovodda analizzata da Simone Maulu che ne ragiona con il professor Bachisio Bandinu.
Ormai viviamo in un’epoca dove si pensa che tutto sia opinabile e dove spesso si dà un peso eccessivo alle opinioni, anche a causa dell’effetto eco delle reti sociali. Pensiamo alla potenza di un’immagine, al suo potere narrativo ed evocativo. Pensiamo alla responsabilità di un fotografo nel riuscire a indagare e restituire attraverso un reportage fotografico il racconto di un evento, di un rituale, di una scena. Pensiamo alla necessaria delicatezza dell’approccio, al rispetto profondo per la scena stessa e per le persone che la animano; alla responsabilità di dover raccontare la verità senza falsarla.
Quando la fotografia non era alla portata di tutti, per riuscire a ottenere questo risultato si studiava. E non mi riferisco alla regola dei terzi o ai tempi di esposizione ma al bagaglio culturale e al codice etico che c’è dietro un reportage che possa definirsi tale. Un lavoro che fino a qualche decennio fa aveva come unico mezzo di divulgazione l’editoria e la stampa. Nei libri le immagini sono spesso corredate da testi di scrittori, antropologi e poeti. Nel fotogiornalismo spesso è il fotografo stesso a scrivere l’articolo correlato alle immagini. Basti pensare ai grandi della fotografia come Henri Cartier-Bresson, Gianni Berengo Gardin, Willy Ronis, Tano d’Amico, Francesco Cito, Uliano Lucas, Lisetta Carmi, Robert Capa, Letizia Battaglia – giusto per citarne alcuni – che hanno raccontato un’epoca.

Grazie agli smartphone la fotografia è oggi alla portata di tutti e questo senso di responsabilità sembra non esistere più. Oggi fotografiamo tutto con una faciloneria che fa rabbrividire. Basta un clic malizioso ed ecco che in un secondo abbiamo falsato la realtà raccontando esattamente l’opposto, comunicando un falso come una verità. Anche la diffusione di tali materiali oggi è alla portata di tutti grazie alle varie piattaforme social attraverso le quali siamo sommersi da una bulimia di immagini vomitate in rete nella maggior parte dei casi solo per la smania di apparire o di comunicare alla nostra cerchia di contatti che siamo in un determinato luogo. Senza nessun senso di responsabilità. Spesso senza chiederci cosa stiamo comunicando. Giusto per acchiappare un po’ di like. Di questo giochino è schiava anche la stampa che spesso confeziona notizie con foto e titoli – in molti casi smentiti dal contenuto dell’articolo stesso – che badano più alle dinamiche degli algoritmi che alla deontologia giornalistica.

Attraverso i social si diffonde anche la vita privata e il confine tra pubblico e privato è sempre più labile. Si diffondono persino azioni illegali come lo spaccio e l’uso di droghe accompagnate da eccessi di ogni tipo che in questo modo vengono normalizzati. Si diffondono foto di neonati e minorenni e a farlo sono i genitori stessi. Tra i video più cliccati ci sono quelli di gattini, cagnolini, di animaletti spesso umanizzati, quindi snaturati e piegati alle esigenze dei loro padroni che a volte si definiscono addirittura “genitori” dei loro animali. Tutto questo diventa normale e appare come giusto.
Nei giorni scorsi la comunità di Ovodda prima e tutta la Sardegna poi, sono state travolte da questa dinamica. È bastata una foto decontestualizzata di quattro pelli di pecora esposte durante il Mehuris de Lessia per scatenare l’ira di uno dei giustizieri degli animali, tra i più seguiti in Italia: Enrico Rizzi, titolare di due profili social che contano oltre mezzo milione di follower. Il dottor Rizzi, condividendo nei suoi canali alcune foto scattate al carnevale di Ovodda, ha manipolato una realtà che non conosce raccontando uno dei carnevali più antichi della Sardegna come uno schifo al quale porre rimedio il prima possibile. Inoltre ha fatto appello a tutti i deputati che lo seguono affinché si facciano promotori di un’inchiesta parlamentare per porre fine a quella che lui definisce barbarie. Chiede persino le dimissioni del Prefetto e del Questore di Nuoro mettendone in dubbio persino l’esistenza e l’autorevolezza. Parla dei sardi come persone che maltrattano gli animali. Ecco che in un attimo una falsità diventa verità per migliaia di persone.
Per uscire da questa schermaglia di basso livello e provare a fare chiarezza rispetto allo spirito e ai rituali che animano il Carnevale in Sardegna abbiamo sentito Bachisio Bandinu, antropologo, giornalista e scrittore tra i più autorevoli in materia.

Prof. Bandinu, in un suo scritto afferma che “le maschere tragiche della Sardegna non appartengono al travestimento carnevalesco né alla commedia dell’arte né al gioco della moda. Mascherarsi è nell’ordine del destino. Perdere l’identità umana e diventare animale-dio”. Cosa significa?
Significa che non appartengono al camuffamento del volto. Dove un uomo ha il volto suo, si mette la maschera e cambia diventando un personaggio come possono essere Arlecchino, Pulcinella o Zorro. Nella maschera tragica quella maschera trasforma l’uomo. Non c’è più l’uomo. C’è un sacerdote del dio o il dio stesso. Se togli quella maschera c’è un’altra maschera. C’è una metamorfosi, non c’è un rapporto tra viso e maschera in cui ti metti la maschera e te la togli come un gioco. Quello è il camuffarsi. Invece questa è una metamorfosi dove l’uomo diventa animale-dio. Ad Ottana, finita la vestizione, quel Boe è un animale-dio non è Antonio Piras, non è una persona.

Spesso si è sentito dire che quello di Ovodda è un Carnevale imprevedibile. Si svolge addirittura il Mercoledì delle Ceneri. Non esiste né un programma né un percorso stabilito. Quel giorno anche le forze dell’ordine sono molto discrete. Come ci ha ricordato anche Vinicio Capossela con un suo articolo pubblicato due giorni fa sull’internazionale, ad Ovodda e forse in pochissimi altri paesi il carnevale nasce per essere fatto, vissuto. Non per essere guardato. Un approccio totalmente diverso rispetto a quello della sfilata. Cosa cambia? Si ha paura che possa sfuggire all’ordine e al controllo?
Perchè governarlo? È il rito stesso che si governa. Quel rito libero è un’espressione rituale: non è incontrollabile, è controllata dal rito, cioè dalla tradizione in cui esso si svolge. Non bisogna vederlo in relazione ad un ordine. Il Carnevale per sua definizione è un tempo eccezionale che non è nell’ordine della normalità. Giustappunto ogni scherzo vale, come dice il proverbio. Quindi non va visto nel senso che è disordinato dove non si capisce nulla, si capisce tutto il rito che ha dentro, è il rito che crea la libertà. È importante l’aspetto di libertà. Anche i Boes e i Merdules di Ottana sono scatenati, chi li governa? Non bisogna governarli, tentano di governarli invano. Così come per i Thurpos di Orotelli: i bovari cercano di dominarli attaccando le funi ma quelli danno calci, strappano le funi perchè è un concetto di animalità divina. Come puoi controllare l’animale-dio?

In Sardegna ogni volta che si svolge una manifestazione che coinvolge gli animali sia vivi – come per l’Ardia di Sedilo, Sa Carrela ‘e Nanti o la Sartiglia – sia morti – come nella maggior parte dei carnevali barbaricini – schiere di animalisti additano i sardi come un popolo di barbari e di persone che maltrattano gli animali.
Non dobbiamo neppure darcene cura di queste cose perchè non capiscono che cos’è un rito tradizionale. È una cerimonia religiosa. Tutto nell’ordine religioso è fondato sul sacrificio. Nella Messa cattolica il sacrificio è l’immolazione, il sacrificio della Croce. Non va visto nel senso dell’animalismo. I cavalieri di Sedilo amano i loro cavalli, non è vero che scendono a precipizio disordinatamente non curandosi del pericolo, come spesso viene scritto. I cavalli sono governati ritualmente. Può capitare un incidente ma quello può capitare comunque e dovunque. Si tratta sempre di un rapporto uomo-animale, con tutti i rischi connessi. Ma non va visto nel senso di un rapporto negativo con l’animale, anzi, è un rapporto divino, è un rapporto religioso. Tutto il codice di lettura è sbagliato perché appartiene ad una cultura esterna che entra prepotentemente dentro una cultura antropologica sarda. E non ha nessun diritto di entrarci.
Allo stesso tempo nella cultura urbana si è normalizzata l’umanizzazione di animali domestici fino al punto di considerarli figli. Secondo lei è frutto di un cortocircuito culturale? Questi due mondi si potranno mai capire?
Prendiamo come esempio il cane pastore. Per gli animalisti è un delitto il fatto che stia al freddo, di notte, al gelo dell’inverno e con la neve. E anche le pecore non messe in stalla. Quello esterno è tutto un mondo falso rispetto al nostro. Non si possono confrontare valori e riti differenti, vanno visti tutti dentro l’antropologia del luogo. Invece gli animalisti partono dal presupposto che l’animale è da curare. Per trattare bene il cane gli mettono la mantellina perché fa freddo. Ti immagini se al cane pastore o al cane dell’ovile gli mettessimo una mantellina? Sono cose assurde, cose che non hanno senso.

Qualche anno fa, ma ormai capita spesso, vidi una scena che mi provocò molta tristezza e frustrazione mista a vergogna: i Mamutzones di Samugheo sfilavano in piena estate su una spiaggia della Costa Smeralda davanti ai bagnanti sbigottiti. Per non parlare di uno spot realizzato per il centro commerciale di Pratosardo dove i Mamuthones, i Thurpos e Su Bundu di Orani entravano a fare la spesa invadendo il centro commerciale stesso. Come è potuto accadere, secondo lei, che molti paesi della Barbagia hanno ceduto a questa mercificazione di quello che è sempre stato un rito ancestrale?
Il processo di spettacolarizzazione è un po’ sfuggito a molti. Per esempio il rito del mascheramento a Mamoiada stava scadendo in una specie di gioco ma poi ne è stato recuperato il carattere religioso adatto alla vestizione. Insomma, ci sono sempre i timori di una spettacolarizzazione modernista ma in gran parte il linguaggio tiene. Ora c’è maggiore coscienza di questo fenomeno che per sua natura tende a invadere per fare spettacolo e business.