Qualche settimana fa ho avuto modo di leggere l’ultimo numero della rivista “Jacobin Italia”, quasi interamente dedicato al linguaggio, al rapporto tra lingua, e quindi politiche linguistiche, e oppressione, di classe ma non solo. E’ stato giustamente utilizzato un taglio intersezionale.
Considero in modo assolutamente negativo, anche per il fatto che la rivista utilizza la lingua italiano, che neanche un articolo abbia scandagliato il ruolo che la lingua italiana ha avuto, negli ultimi secoli, nella costruzione di contesti egemonici oppressivi all’interno dell’Italia.
Essendo sardo, penso innanzitutto alla mia terra, ma credo che compagnə di altre minoranze linguistiche (che termine terribile “minoranze linguistiche”!) possano dire lo stesso per altri territori oggi italiani. E’ stato dato spazio a concetti come “non esistono usi non politici della lingua” e “Chi dice che il vero terreno di scontro è il linguaggio non esagera affatto”.
E’ proprio così, ed è almeno dalla pubblicazione del libro di Sergio Salvi “Le lingue tagliate” del 1975, che il tema ha avuto una qualche eco nel dibattito culturale marxista italiano. Da quel libro nacque anche un dibattito su “La Rinascita”, per la verità abbastanza arretrato.
Addirittura Donatella Di Cesare scrive “Mentre si parla finalmente di altre estinzioni, di piante, di animali, di specie a rischio, passa in genere sotto silenzio la perdita delle lingue che, pure, è inarrestabile. I popoli dell’Amazzonia non hanno subito solo la politica negazionista e genocidaria di Jair Bolsonaro, prima e soprattutto durante la pandemia. Da decenni sono vittime non soltanto della deforestazione, ma anche di una meno evidente sottrazione delle proprie lingue che via via si vanno estinguendo. Sennonché anche la
perdita di una lingua parlata da pochi individui in un angolo remoto è pur sempre la perdita di un modo di articolare il mondo, un depauperamento del patrimonio umano”.
Si parla del Brasile e non del ruolo che lo Stato, e l’Università italiana, dove lavora la compagna, hanno avuto nel genocidio culturale di un popolo (quello sardo), per il quale nel 1949 il grado di alfabetizzazione nella propria lingua era il 99% ed oggi, nel 2020, è esattamente il contrario (meno dell’1% dei bambini vengono alfabetizzati in sardo).
E’ forse orientalismo? O peggio? O solo ignoranza? Se così fosse, perché non dedicare uno spazio nei prossimi numeri a questi temi?
Il bello articolo di Montefusco, addirittura, arriva (p. 31) a definire la lingua sarda “dialetto sardo”! A parte che l’ha scritto Gramsci, ma da secoli i manuali di filologia romanza (a parte quelli italiani politicamente orientati di diversi decenni fa) sono concordi nel ritenere il sardo una lingua romanza.
Ecco, io credo che il quel campo politico, in Italia, non farà un passo in avanti fino a quando non affronterà o questi temi e non sarà, invece, promotrice di una riscoperta di una “questione nazionale”, in Italia, che è molto più complessa di quanto i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia hanno preteso di insegnarci. Anche su questi temi Gramsci è molto utile.
Come scrive Jacobin “Le persone oppresse lottano con la lingua per riprendere possesso di sé, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole significano, sono azione, resistenza”. Come non ritrovarsi su queste parole d’ordine, o su queste altre: “L’antipatia, quando non la critica sfacciata a mezzo stampa, verso una parlata, un dialetto o una lingua minoritaria, non è mai soltanto una questione di lingua. È anche una questione di potere, di controllo; sicuramente di classe”.
In Sardegna qualche compagnə lo pensa e lo pratica ogni giorno. Sarebbe corretto allearsi con loro, e non con i nazionalismi italiani borghesi, praticati anche dalla maggioranza dei compagnə.